Quantomeno non nella forma di una cooperativa, quella che sulle prime apparirebbe come la soluzione più immediatamente associabile ai vari GTA e Max Payne. La presenza di una componente competitiva, introdotta con GTA IV e sviluppata in Read Dead Redemption, sembrava un palliativo piuttosto ben fatto, un corpo estraneo destinato a vivere di pregi e difetti propri senza mai davvero toccare le stesse note dell'avventura principale con cui condivide lo spazio sul disco. Invitati a Londra per provare il multigiocatore di Max Payne 3, ci siamo resi conto del punto di vista sbagliato da cui partivamo e di come la strada intrapresa punti verso la direzione opposta: piuttosto che aggiungere giocatori alla rigida struttura dell'esperienza in singolo, si può ottenere lo stesso attaccamento verso il proprio personaggio restando nel brutale ambito delle sfide player versus player. Ecco come.
Sfida tra bande La soluzione più evoluta per mettere in catena una serie di battaglie multiplayer, di solito, è creare una playlist che sputa una dopo l'altra tante sfide quante sono quelle previste. R* crede di poter cambiare questa impostazione asettica aggiungendo una componente narrativa a ogni partita così da renderne la fruizione interessante. Caricato il match, veniamo proiettati dalla lobby della modalità Gang War all'umida mappa portuale The Sunny Tiete River, uno spazio dove fino in sedici scannarci tra capannoni industriali, container e moli semi abbandonati. Il nostro team e quello avversario sono al centro di una disputa per un territorio, una porzione di terreno da catturare entro i primi minuti e difendere quanto più strenuamente possibile.

La storia del multiplayer di Max Payne 3 vuole però anche essere la storia personale del giocatore, che attraverso il Rockstar Social Club può associarsi alle così dette Crew. Dei gruppi, pubblici o privati, ai quali unirsi e per cui combattere qualsiasi modalità e con chiunque si giochi. Un gruppo di amici crea un clan e affronta il matchmaking in gruppo.
Mentre un utente solitario si unisce a uno pubblico, facendo sì che i suoi successi siano anche quelli della bandiera per cui combatte silenziosamente ma con la certezza che, qualora in una lobby si trovasse con un compagno, finirà automaticamente in squadra con lui. Nel gioco esiste anche il concetto di Vendetta, un modo per dichiarare di volersi vendicare di un avversario che ci ha fatto fuori almeno un paio di volte ottenendo un bonus di punti esperienza in caso di successo. O facendolo ottenere a lui qualora dimostrasse ulteriormente la sua superiorità. Bene, questa semplice meccanica viene estesa alle Crew, che come fossero gang di qualche ghetto statunitense vivono di rivalità e i cui membri hanno come priorità l'abbattimento dell'odiato nemico, anche se incontrato per caso durante un match pubblico. Sono piccole cose, non si tratta certo di una svolta in grado di trasformare il titolo nell'e-sport definitivo, però esaltano frustrazioni e gratificazione implicite in ogni competizione che prevede punti, classifiche finali e la possibilità di prendersi vicendevolmente per i fondelli.
Gang War è la principale novità del comparto online di Max Payne 3, ma non l'unica attrazione degna di nota. Rockstar ha lavorato partendo dai livelli single player a cui è stata posta una cura maniacale, per rielaborarli così che calzassero a pennello quando messi alla prova in quest'ambito frenetico e privo di script. Le intricate viuzze in terra battuta di The Favela, un insieme di catapecchie in lamiera e spoglie palazzine su due piani, sono state arricchite di passaggi, passerelle e pertugi attraverso i quali lanciarsi in acrobatici tuffi ma anche rotolare per smarcarsi dal nemico che ci ha agganciato prendendo la mira (se l'host ha previsto la presenza del soft lock), in un continuo perdere di vista e ritrovare il bersaglio dovendosi allo stesso tempo guardare le spalle.


In più però, Max Payne 3 butta nella mischia i cosiddetti Burst, poteri dai più svariati effetti attivabili premendo l'analogico destro. Per una descrizione a tutto tondo vi rimandiamo al box dedicato, limitandoci a spiegare il funzionamento del più celebre, il Bullet Time. Anziché creare una "bolla" che rallenta chiunque si trovi al suo interno tranne chi l'ha attivata, qui l'effetto viene applicato a chi rientra nella visuale. In questo modo la distanza è maggiore ma il cono in cui si applica limitato e diventa necessario, se si è bersaglio del Bullet Time, cercare di smarcarsi quanto più rapidamente possibile. Si tratta di un compromesso, ovvio, ma del miglior compromesso possibile. Lanciarsi da una balconata in tuffo, bazooka alla mano pronti a far saltar per aria il mondo, per farsi rallentare e uccidere a colpi di pistola da un avversario poi comodamente in grado di schivare il missile, è una frustrazione impagabile.
Nessun commento:
Posta un commento